Intervista a Carlo Iacomucci

Intervista a Carlo Iacomucci
Incontro con l’Artista dell’aria – a cura di Elisabetta Sofi

«Sono riuscito a rimediare una trentina di disegni di quando ero ragazzino, quando frequentavo la mia Scuola del Libro di Urbino: delle figure dal vero… dei disegnini… Sono riuscito a riprenderli dalla scuola dopo tanti anni. Li ho piegati perché li ritenevo brutti, dei disegnacci! E purtroppo oggi mi son pentito di averlo fatto: mi sembrano piccoli capolavori…».

Inizia così Carlo Iacomucci con alcuni di Clartè dell’Emilia Romagna a cui ha aperto le porte del suo studio di Macerata.
Pittore, incisore, docente a vari livelli di discipline pittoriche, Carlo Iacomucci è l’artista dell’aria!
Sì, dell’aria… Sarà per l’amore per la natura (lui stesso si definisce figlio della campagna) da cui avrà mutuato i colori intensi, le forme a volte raffinate a volte indefinite. Sarà per l’elemento dell’aquilone, “simbolo poetico” come lo definisce l’artista, sempre presente nelle sue opere.

Sarà per i piccoli tratti di colore che qualcuno chiama gocce, qualcuno tracce, sono in origine foglie leggere e docili al vento: movimenti ventosi. Da incisore Iacomucci è attratto dalla poetica del segno.
Saranno gli ombrelli e gli spaventapasseri posti come sentinelle della natura, a guardia, per offrire una difesa.
Iacomucci è l’artista dell’aria perché le sue opere sono una ventata d’aria fresca e pulita per il cuore, una ventata di speranza.

Una cosa è certa: mai chiedergli di “spiegare” le sue opere, vero maestro?

É difficile a volte per me dare un significato.  Nel momento della realizzazione dell’opera io vado oltre alla verità, oltre la realtà che io vivo, oltre il vissuto, perché il pensiero va o l t r e . La creatività va oltre. Quello che già esiste a me non interessa (per esempio rifare una bella farfallina): io cerco di vedere cosa c’è oltre (oltre la farfalla), lì dove ci sono dei ricordi, delle sensazioni.
La mia è una verità più profonda. Venendo da una formazione scolastica urbinate, porto avanti la tradizione del vero, che poi vero non è perché realizzo una serie di combinazioni che in realtà non esistono, ma corrispondono ad un vero profondo…».

Quali sono i tempi e i modi di realizzazione dell’opera?
«Dipende. Dipende dall’opera. Innanzitutto ci vuole più per pensare che per lavorare. Nella mia testa ci sono già le basi, altrimenti non inizio. E anche se ho le basi, man mano che vado avanti, non realizzo mai quello che avevo pensato inizialmente. Comunque in mente c’è tutto.
Certamente non c’è il colore. Ma c’è la struttura portante. E, una volta iniziato, ad un tratto subentra un qualcosa, una luce meravigliosa, un’idea, come se qualcuno mi scrivesse nella testa, e tutta quella scrittura rimanesse lì. E vado avanti, vado avanti…
Poi, la cosa più triste è quando devo interrompere. L’interruzione non avviene solo quando mi chiama qualcuno, vuol dire anche andare a pranzo, andare a dormire, a riposare.

Fino a due anni fa, quando ancora insegnavo (ho insegnato nelle accademie, licei artistici, istituti d’arte, l’ultimo qui a Macerata interrompere per me è stato sempre un sacrificio enorme, specialmente quando incido una lastra che mi piace molto. Insomma l’interruzione mi da un po’ fastidio».

E l’insegnamento? Quanto ha inciso nella sua arte il contatto con gli studenti?
Ognuno le avrà lasciato qualcosa… «Si, beh…tutti no, per carità! Sicuramente anch’io ho imparato da loro, è stata un’esperienza molto importante.
Quello che posso dire è che ho dialogato coi ragazzi perché il dialogo è una cosa fondamentale, e ho portato loro la mia esperienza di tutti i giorni.

Ho cercato di trasmettere qualcosa ai ragazzi rimanendo con le mani in pasta. E quelli più attenti lo hanno recepito. Oggi mi chiamano, mi telefonano, mi vengono a trovare… Sono grandi, già sposati, anche di un certo livello. Mi ringraziano e rispondo loro che ho fatto solo il mio dovere. In trentasei anni ho insegnato anatomia disegnata, ho insegnato nudo, figura disegnata, disegno dal vero, educazione visiva, la teoria del colore: la lettura di un’immagine è una cosa bella però anche complessa.

Mi sono costruito un buon bagaglio, cercando di portarlo avanti. Però anch’io ho imparato con loro, veramente! Tante cose. Per esempio la mia mano, il mio modo di lavorare, è sempre abbastanza gestuale. Invece vedere come a volte un ragazzo riesce a intuire e finire alcuni dettagli con tanta pazienza, con tanta armonia, con tanta volontà… io non ci riuscirei».

Nelle sue opere si trova una tale ricchezza, ricercatezza… La sua tecnica spazia dalla pittura alle raffinatezze dell’incisione. É molto vivo il rapporto con la natura, ma anche con Urbino e il glorioso Umanesimo di cui è ancora intrisa. Qual è la ricetta di tanta ricchezza?
«É una ricchezza che fa soffrire… Perché non mi accontento mai. Io lavoro con ansia. Il vento è ansia per me, c’è in tutti i miei ritratti. Sono un finto calmo!».

Cosa significa?
«Non lo so quanto mi ci vuole per dire: “quello mi piace!”. A volte passa parecchio, è dura, è dura… Dopo si matura… Io credo che il creativo non sia “normale”, che non abbia tutti gli “ingredienti” come, ad esempio, l’impiegato di banca, dove tutto quadra in modo preciso, dove due più due fa quattro… Insomma se non c’è questa molla d’ansia, questo tormento, diventerei piatto, farei le solite cose. Io non ce la faccio.

Sono un tormentato! Noi artisti dobbiamo realizzare qualcosa che non c’è, e non è facile.
Dobbiamo lavorare con molta spontaneità, dobbiamo avere anche qualche “numero”, qualche cosina che il Padre Eterno ci ha donato, di diverso dagli altri, e poi occorre corrispondere a questo dono senza aspettare la manna dal Cielo!».

Emerge chiara tutta la fatica di chi è impegnato a dire qualcosa che è altro da sé, ma forse proprio questo può essere il contributo dell’artista alle contraddizioni di una società come quella di oggi. Secondo lei è così? Cosa può dare l’artista oggi?
«Oggi c’è molta confusione. Non c’è, non esiste, una difesa per gli artisti. Ho diversi contatti, e mi è capitato di lavorare in Brasile ed in particolar modo in Argentina, dove ho esposto diverse opere. Lì c’è differenza tra i pittori e altre categorie come, ad esempio, l’autodidatta. Qui da noi invece non esiste.

Ci si salva perché si porta avanti il proprio lavoro con serietà: solo in questo caso si lascia un timbro, si lascia qualcosa alla società.
Ognuno di noi ha delle esigenze: mentali, fisiche, emozionali. Di solito le emozioni sono quanto abbiamo di intimo e riservato, ma che tiriamo fuori, esprimiamo in qualche modo, sperando di trasmettere qualcosa alla società.
Solo se siamo sinceri la gente, bene o male, avrà bisogno di noi, e noi in qualche modo trasmettiamo un patrimonio, lasciamo qualche cosa.

Quindi, attraverso le mostre e altro, c’è la possibilità, la grande possibilità di poter dare anche agli altri queste emozioni che altrimenti si perderebbero. Questo forse è il bello, no? Però è qui che bisogna sempre stare molto attenti: nella grande confusione bisogna saper discernere e non svendersi mai».

Promosso da Clarté "Artisti in dialogo" Emilia Romagna-Marche
"INCONTRO CON L’ARTISTA DELL’ARIA"
 
INTERVISTA ALL’ARTISTA  MARCHIGIANO CARLO  IACOMUCCI
A CURA DI  ELISABETTA SOFI
(intervista realizzata a Macerata  – Trasmesso da Parma nel dicembre 2011)
 
Elisabetta Sofi
elisabetta.sofi@gmail.com