Roberto Vecchione (1945/2011) – Società Permanente – Milano

Roberto Vecchione (1945/2011) – Società Permanente – Milano
24 gennaio 2012 – ore 18,00

Martedì 24 gennaio 2012, alle ore 18,00, presso la Società Permanente di Milano, via Filippo Turati 34, in ricordo dello scultore Roberto Vecchione parlerà il critico Luca Pietro Nicoletti e testimonieranno gli artisti Giovanni Campus, Ornella Piluso e Stefano Soddu. Durante gli interventi verranno proiettate le immagini del lavoro di Vecchione.

Si è parlato, per l’opera di Roberto Vecchione, di scultura “come progettualità” (Angelo Rovetta) e di “scultura traslata” (Bruno Munari). Entrambe le definizioni mettono sinteticamente in evidenza gli aspetti fenomeno logicamente più rilevanti del suo modo di intendere la forma e, soprattutto, dell’approccio dell’artista alla scultura.

Per decriptare la lingua plastica di Vecchione, infatti, bisogna smontare il procedimento tecnico per riconoscerne le basi problematiche e stilistiche, e solo in questo modo si potrà capire che cosa intendesse l’artista stesso quando definiva il proprio lavoro una «manifestazione assoluta di un numero, di un calcolo matematico-geometrico e delle sue proprietà virtuali».

Si tratta infatti di una scultura “mentale”, di rigoroso impianto astratto-geometrico pensato secondo cadenze modulari, lavorando sui principi della ripetizione, della traslazione e della simmetria, ottenute attraverso fusioni in alluminio «eleganti, sinuose, barocche nell’accezione della continua ricerca della luce e dell’ombra» (Stefano Soddu). In effetti, il continuo rincorrersi di linee curve e spezzate che si muovono all’interno delle sue forme ha l’accento mobile del barocco, obbliga l’occhio a rincorrere gli andamenti grafici dei profili senza che possa trovare riposo su qualche spazio o su qualche forma: l’andamento mistilineo, che alterna cerchi ed ellissi, cavità cilindriche e pareti dritte e levigate, invita a una percezione globale e a una scansione rapida: una curva finisce e rimanda alla successiva, e così un’ellisse rinvia immediatamente a quella subito successiva, indicando un andamento dinamico e una spinta ascensionale.

In questo movimento, però, a questa scultura mancano la sinusoide, cara al barocco, e il movimento virtuale che increspa le superfici, cui si sostituiscono la pulizia e il nitore dell’alluminio lucidato quasi a specchio. Alle volte, poi, specie nelle sculture più recenti, Vecchione si è anche servito di un gioco di superfici e di colori, dando al volume esterno della scultura, generalmente liscio e piatto, una colorazione nera, in modo da far risaltare la lucentezza delle cavità interne specchianti.

In questo modo, egli accentua l’aspetto modulare e sembra voler indicare con maggiore insistenza che il gioco della forma è tutto interno a un volume che esternamente si presenta liscio e regolare, quasi un guscio di protezione per un interno scavato. In effetti, a ragione in tal senso Angelo Rovetta quando osserva che questo procedimento accentua «la meccanicità dell’operazione con cui la materia viene aggredita, sforacchiata e trapassata, ma nello stesso tempo si illustra, attraverso l’artificio dell’arte, quella ripetitività e necessità delle leggi fisiche con cui la natura organica e inorganica costruisce le sue forme, le sue conche, le sue grotte, le sue conchiglie, i suoi alveari, i suoi formicai, i suoi nidi».

La scultura di Vecchione è struttura più che volume, scheletro che delimita tramite spigoli netti e profili mistilinei i confini di uno spazio. È arte del costruire, di concepimento architettonico ma anche senza ambizioni architettoniche. Dell’architettura condivide infatti l’approccio progettuale, il fatto di nascere solo dopo un accurato studio grafico; nella sua articolazione spaziale, però, non aspira alla monumentalità, pur avendo avuto, in alcuni casi, destinazioni pubbliche: nella sua dialettica di pieni e di vuoti non costruisce spazi abitabili, o attraversabili, ma delimitano uno spazio che solo l’aria e la luce possono attraversare.

D’altra parte, le strutture che Vecchione ha scelto di adottare non sono l’arco o la porta, ma la colonna e la stele, con il loro fusto che svetta verso l’alto e aspira all’infinito, aiutato da un volume scavato al suo interno che si fa, talvolta, via via più rarefatto. Lo scultore stesso, infatti, scriveva che «la luce dell’ambiente converge e cade sulla e nella scultura, accentuandone la verticalità leggera e tesa; i vuoti che ritmano la superficie e l’interno della materia, grazie alla loro geometricità e alla loro ricorrenza sistematica, mettono in evidenza una ricerca di equilibri volumetrici delle masse».

Proprio su questo aspetto si era concentrata l’attenzione di Bruno Munari, il quale aveva acutamente messo in luce i meccanismi della “fantasia” con cui nascevano queste grandi steli e colonne: «Roberto Vecchione, nella progettazione dei suoi oggetti, applica la regola di traslazione, usa elementi uguali e li dispone nello spazio a distanze uguali. Ma così detto, il suo principio sarebbe troppo elementare. Il gioco nasce quando si applicano più regole insieme. Intanto bisogna dire che Vecchione non usa forme ma vuoti di forme per cui mette in evidenza lo spazio tra queste forme». Talvolta, invece, inverte il meccanismo, usando solo il volume cilindrico, quasi fosse il pieno che ha rimosso dalle cavità forate dei propri parallelepipedi di alluminio, come per le sculture realizzate per l’ambone della chiesa di Pieve Emanuele, appena fuori Milano.

Non è un caso, però, che il suo lavoro abbia trovato in Bruno Munari uno degli interpreti più attenti e intelligenti:  in questo genere di scultura, infatti, sono numerose le tangenze operative, ideative e immaginative con il mondo del design e della progettazione per l’industria, campi in cui Munari è stato un maestro non solo per un fatto di stile, ma proprio per l’intelligenza con cui ha decostruito i procedimenti creativi, nel tentativo di capire quali fossero le regole “grammaticali” basilari della fantasia.

Per completare il quadro, però, bisogna aggiungere che oltre ad essere una scultura di progetto, quella di Vecchione è anche scultura “da officina”, che nasce passando di bottega in bottega per saldare, tornire e fresare le varie parti che costituiranno la scultura. L’artista ne vigila con attenzione ogni passaggio, istruisce l’artigiano, e controlla ogni fase di svolgimento del lavoro, scandisce i tempi e coordina le operazioni.

Chi ha visitato il suo studio, infatti, sa bene che non si tratta di un laboratorio in cui, come in una fucina di Vulcano, prendono vita dal caos forme polite e lucenti: nel suo studio, di cui ha dato una bella descrizione Stefano Soddu in un libro dedicato ai “ritratti di studio” illustrato da fotografie di Enrico Cattaneo, regna l’ordine e la pulizia. Qui Vecchione disegna molto e prepara i modelli in legno dei moduli base che farà successivamente fondere per poi combinarli, saldarli, forarli o sezionarli per arrivare al risultato finale. Ma tutto questo avverrà lontano dallo studio di via Meda, sui Navigli, in laboratori abitualmente dediti a realizzazioni meccaniche e con strumenti che solo nell’era moderna sono entrati a far parte degli strumenti dello scultore: come ha detto giustamente Munari, è «il fatto creativo che usa una regola semplice e un mezzo tecnico per mostrare invece qualcosa che non si sarebbe visto prima».

È una logica conseguenza che nel lavoro di Vecchione il momento operativo sia scisso da quello ideativo, anzi che si arrivi alla realizzazione pratica solo dopo un attento lavoro di progettazione. Su questo punto, infatti, diventa centrale il ruolo del disegno, necessario a visualizzare quella che l’artista stesso ha definito “scultura virtuale”, ossia momento al contempo di visualizzazione e di verifica: «è il disegno» scriveva l’artista, «la prima intuizione di una possibile immagine plastica, poi subito la sua progressiva definizione strutturale, quindi la verifica della sua realizzabilità tecnica in quanto oggetto plastico.

Il mio disegno è perciò teso alla scoperta, corre continuamente il rischio dell’ipotetico per giungere infine a prefigurare le coordinate del lavoro nel rapporto operativo con la materia nella quale si concreterà fisicamente la scultura». Il disegno, quindi, è un momento fondamentale del processo di creazione dell’opera, il momento in cui si “mette mano” alla scultura, anzi il momento creativo vero e proprio avviene proprio nella messa a punto grafica, che servirà poi da istruzione per il momento “artigianale”.

Del resto, Vecchione concepisce un genere di scultura che non richiede un intervento manuale in senso stretto: la mano non scava e non modella, ma guida la macchina che realizzerà i fori e le saldature. Per questo è necessario un lavoro di previsione sul lavoro, una «conoscenza e rispetto della materia in cui e con cui si opera». Tutto questo, si può riassumere con le parole dell’artista stesso, quando dichiarava la necessità di una «moralità intrinseca all’atto stesso di progettare». Non bisogna però nemmeno dimenticare che questo rigore della geometria travalica i limiti della fredda razionalità: quando la luce proietta il ricamo d’ombra che completa queste sculture nell’ambiente, ci si rende conto che Roberto Vecchione, con i suoi fori tondi e cilindrici, ha costruito della poesia.

Luca Pietro Nicoletti