D’un sileno, di volti anatolici – Giuseppe Cuccio – Elle Arte – Palermo

Titolo: D’un sileno, di volti anatolici

Artista: Cuccio Giuseppe

Curatore: Aldo Gerbino

Luogo: Galleria Elle Arte via Ricasoli , 45 – 90139 Palermo

informazione: tel. (+ 39) 091.6114182

e-mail:ellearte@libero.it – www.ellearte.it

Durata: dal 13 Gennaio 2018 al 03 Febbraio 2018

Vernissage: 13 Gennaio 2018 ore 18.00

Catalogo: in galleria

Orario: da lunedì a sabato 16,30 / 19,30


D’un sileno, di volti anatolici

di Aldo Gerbino

Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsïa traesti
de la vagina de le membra sue.

[Dante, Par., I, 19-21]

Segni di sensibilità e bontà sono riscontrati da Federigo Tozzi nel momento in cui, narrando per versi la figura di Stephane Mallarmé, rivela insospettatamente una contiguità sentimentale con Marsia. E del Sileno si accenna a quell’innata sua mitezza covata nel tepido tessuto arboreo dei boschi, spandendo a dismisura l’armonica anima dell’auleta, più che la sua supposta tracotanza. Essa ci dice, anche, della continuità nell’oggi, della spietatezza rilasciata dalla gabbia competitiva, non dimenticando però la forza del suono, il riversarsi dell’onda musicale sgorgata dalla parola e di quanto si agiti, nello spazio tra paesaggio terrestre e celeste, all’interno della nostra psiche. Terracotta e legno, marmo e bronzo ci dicono dunque dell’uso insistito della mano, del plasmare calchi e il corpo crudo dell’argilla. Su tali note di materia non può che affiorare il registro espressivo di Giuseppe Cuccio, giocato sulla fabrilità, sulle tattili pieghe, più o meno ardue, delle materie. Lucini, nel saggio introduttivo ai Poeti simbolisti e liberty (Scheiwiller, 1967), – e Tozzi vi appare con due brevi e commossi testi (“A Edgardo Allan Poe” e “A Stefano Mallarmé”), – accenna a quel Deus, sive Natura spinoziano, mentre, più avanti, lo scrittore senese (autore, in poesia, della Zampogna verde) ci investe con la straziata figura di Marsia: l’elaboratore degli inni sacri agli Dei. Egli, lo scorticato figlio di Eagro, qui da Giuseppe esteso in Apollo e Marsia (terracotta e legno, 2014), sileno pietosamente trasformato, mentre canta i suoi versi accompagnati dalle melodiose note irradiate dall’aulòs (lo strumento creato da Atena) in anatolico letto fluviale dallo stesso Apollo nell’impari tenzone musicale. Ed ecco, similmente all’auleta, Mallarmé è sì «buono come Marsia». La ‘pietas’ si stende su di lui come bianchi lenzuoli; pietas posta a lenimento d’ogni possibile hýbris. Poteva, d’altronde, non essere compianta la sua sorte da Satiri, Fauni, creature silvane, Ninfe e pastori, nel momento in cui un pentito Apollo, dopo averlo spellato e poi mutato in fiume, pose persino la sua stessa cetra nell’antro di Bacco?

E qui, nell’intensa e contenuta antologia scultorea di Cuccio, assistono, con noi contemporanei, volti anatolici pronti a riappropriarsi della pietà, della commozione, mentre canti e inni serpeggianti tra pietre, terrecotte, bronzi (come il volto assorto e immalinconito dal tempo nell’efficace Testa femminile; bronzo, 2010) e frammenti marmorei disperdono il silenzio che pertiene alla scultura: stoffa accolta nel racconto del mondo, nel viaggio archetipico cui ogni generazione sembra essere spinta a ripetere tra visione e ri-creazione, tra radici e memoria. Tutto ciò vuol significare: ora l’ansia sprigionata nella linea ricurva di Narciso (terracotta, 2014), ora la molle levità dei volumi sincretici in Teti (terracotta, 2015). Non si arresta il racconto nella midolla del tempo, né s’inceppa sul proprio filo raggomitolato: in tal modo i bassorilievi in cui appaiono centauri, – mostri téssali colmi di meraviglie generati dal commercio d’Issione con Nuvola – si identificano con Nésso, ucciso da Ercole nel vano tentativo di rapire Dejanira, o con Chirone, celebre figlio di Saturno e Fillira, maestro di Esculapio e sommo nella medicina, nella chirurgia e nell’astronomia, compilatore del Calendario per gli Argonauti, insegnante di Achille per la musica e di Ercole per la medicina. Con Pegaso, ninfe, arcaici torsi in travertino e pupille percorse dalle salsedini dell’Asia minore in cui gettò il suo sguardo ampio Europa figlia di Agenore, Giuseppe dice, infine, della persistenza del seme, della nostalgia alimentata dalla presenza dei padri.


Religio della forma

A Giuseppe Cuccio

La fìttile bellezza e la severa

serenità del bronzo che ritorna

a incidere i tuoi volti come cera

perduta e ritrovata nel suo peplo

che nasconde il dolore e la gioia

nel dorico rigore dell’attesa

la tua mano ha segnato e alla memoria

che persiste agli orrori della storia

oggi rivela la profonda grazia

raccolta in geometrie dove s’ accoglie

l’armonia percepita e sognata

nel fragile mistero del silenzio.

Piero Longo